Ciao a tutti, o forse no, non proprio un ciao, ma un respiro profondo, come quelli che facevo quando la bilancia sembrava un giudice implacabile. Mi presento: sono uno che dalle ceneri di un corpo che non riconoscevo più ha imparato a volare, leggero, ma forte. Questo è il mio viaggio, tra sudore, ferro e una volontà che non sapevo di avere.
Pesavo 110 chili, un numero che mi schiacciava più di qualsiasi bilanciere. Non era solo grasso, era un’armatura di insicurezze, di “non ce la farò mai”, di giorni passati a nascondermi in maglie larghe. Ma un giorno, quasi per caso, ho messo piede in palestra. Non per moda, non per obbligo, ma per disperazione. Ho preso in mano un manubrio e ho sentito che poteva essere l’inizio di qualcosa.
L’allenamento di forza è stato la mia rinascita. Non parlo solo di muscoli che crescevano, ma di una testa che cambiava. All’inizio era un disastro: fiatone dopo cinque squat, mani tremanti sotto pesi ridicoli. Però ho continuato. Perché? Perché ogni ripetizione era una promessa a me stesso: “Puoi farcela”. Non è stata una dieta perfetta a salvarmi – anche se ho imparato a mangiare meglio, a contare calorie come fossero monete preziose – ma il ferro. Sollevare pesi mi ha insegnato a sollevare anche il mio spirito.
Le difficoltà? Tante. Le ginocchia che protestavano, la tentazione di mollare davanti a un piatto di carbonara, gli sguardi di chi pensava “questo non durerà”. Ma sapete qual è stata la vera lotta? La pazienza. La forza non arriva in una notte, e nemmeno la leggerezza. È un volo lento, fatto di cadute e rialzate. Ho pianto, sì, ma non di sconfitta: di fatica, di gioia quando vedevo il mio corpo cambiare, diventare uno strumento e non un peso.
Cosa mi ha aiutato? La costanza, prima di tutto. Non ero un atleta, non avevo geni da supereroe, ma avevo un appuntamento fisso con me stesso. Poi la palestra, un tempio dove il clangore dei pesi era una musica che mi spingeva avanti. E sì, anche le persone: un amico che mi correggeva la postura, un trainer che mi diceva “aggiungi un altro disco”. Non ero solo, anche se il viaggio era mio.
Oggi sono a 75 chili. Non è solo una questione di numeri, è il modo in cui mi sento: un uccello che ha spezzato le catene delle sue stesse piume. L’allenamento di forza mi ha dato ali, ma non per volare via: per restare, per vivere meglio. Ogni panca, ogni stacco, ogni goccia di sudore è stata una poesia scritta col corpo. E ora, mentre scrivo, spero che qualcuno là fuori, magari schiacciato dal suo 110, senta che può iniziare. Non serve essere perfetti, serve solo alzarsi e provarci. Dalle ceneri, si può volare.
Pesavo 110 chili, un numero che mi schiacciava più di qualsiasi bilanciere. Non era solo grasso, era un’armatura di insicurezze, di “non ce la farò mai”, di giorni passati a nascondermi in maglie larghe. Ma un giorno, quasi per caso, ho messo piede in palestra. Non per moda, non per obbligo, ma per disperazione. Ho preso in mano un manubrio e ho sentito che poteva essere l’inizio di qualcosa.
L’allenamento di forza è stato la mia rinascita. Non parlo solo di muscoli che crescevano, ma di una testa che cambiava. All’inizio era un disastro: fiatone dopo cinque squat, mani tremanti sotto pesi ridicoli. Però ho continuato. Perché? Perché ogni ripetizione era una promessa a me stesso: “Puoi farcela”. Non è stata una dieta perfetta a salvarmi – anche se ho imparato a mangiare meglio, a contare calorie come fossero monete preziose – ma il ferro. Sollevare pesi mi ha insegnato a sollevare anche il mio spirito.
Le difficoltà? Tante. Le ginocchia che protestavano, la tentazione di mollare davanti a un piatto di carbonara, gli sguardi di chi pensava “questo non durerà”. Ma sapete qual è stata la vera lotta? La pazienza. La forza non arriva in una notte, e nemmeno la leggerezza. È un volo lento, fatto di cadute e rialzate. Ho pianto, sì, ma non di sconfitta: di fatica, di gioia quando vedevo il mio corpo cambiare, diventare uno strumento e non un peso.
Cosa mi ha aiutato? La costanza, prima di tutto. Non ero un atleta, non avevo geni da supereroe, ma avevo un appuntamento fisso con me stesso. Poi la palestra, un tempio dove il clangore dei pesi era una musica che mi spingeva avanti. E sì, anche le persone: un amico che mi correggeva la postura, un trainer che mi diceva “aggiungi un altro disco”. Non ero solo, anche se il viaggio era mio.
Oggi sono a 75 chili. Non è solo una questione di numeri, è il modo in cui mi sento: un uccello che ha spezzato le catene delle sue stesse piume. L’allenamento di forza mi ha dato ali, ma non per volare via: per restare, per vivere meglio. Ogni panca, ogni stacco, ogni goccia di sudore è stata una poesia scritta col corpo. E ora, mentre scrivo, spero che qualcuno là fuori, magari schiacciato dal suo 110, senta che può iniziare. Non serve essere perfetti, serve solo alzarsi e provarci. Dalle ceneri, si può volare.